loading . . . Questa è una voce del dizionario sulla quale avrei sorvolato volentieri, se non fosse per una certa vocina interna che quando si accorge che ha messo insieme, in _background_ o quasi, qualche idea per un post, inizia a bussare in modo piuttosto insistente.
Perché avrei sorvolato? Perché entrare veramente in questo ambito mi fa sentire _in pericolo_. Sento il pericolo di perdere la maschera, quella di persona pacata e ragionevole, mite e riflessiva, che inconsapevolmente metto su quando scrivo.
E’ una questione di difesa, in fin dei conti, qualcosa che tutti conosciamo bene. Costruirsi una certa identità – non falsa, ma nemmeno totalmente vera – e poi rifugiarsi lì dentro, in modo da riconoscersi, ritrovarsi: soprattutto quando i momenti si fanno opachi, quando non si ha chiarissima la direzione.
“Immusonita e capricciosa”, elaborazione dell’Autore attraverso Copilot Designer di Microsoft
Ma perché difendersi? Se mi guardo dentro, la risposta è molto rapida ad affiorare. Quando penso che il mondo sia una giungla, penso di dovermi difendere. Quando sono contratto, penso che tutti tentino di usarmi per i loro piani, che in realtà non mi voglia bene nessuno, che io stesso non sia veramente in grado di voler bene, che insomma questo sia un universo poco raccomandabile, nel complesso: potendo scegliere, sarebbe quasi da andarne a cercare altri.
Poco importa, mi verrebbe da dire, che magari le cose viste da fuori appaiano diverse. Gli universi percettivi sono infiniti e purtroppo non sempre si allineano, ai bordi. Posso essere semplicemente io, che mi fisso su qualcosa. Un capriccio? Non è da escludere. Scrive Etty Hillesum nel suo diario
> A volte mi sento come un bambino immusonito e capriccioso che cerca di forzare una porta che non è neanche chiusa. E non faccio forse un gioco infantile con me stessa, facendo finta che quella porta sia chiusa e spingendomi così in uno stato di sempre più profonda infelicità? Non lo so con esattezza.
Cambiare stato (ovvero, transire _realmente_ di universo) è sempre una fatica, ed è anche una domanda, una _implorazione_. Perché da me non riesco, mi serve aiuto. Se mollo la presa, a volte, mi sembra di cascare nel vuoto cosmico, di morire. Mi pare proprio di non potermelo permettere. Eccolo, il tema del _possesso_.
Il grande Mark Knopfler la tocca piano, nella sua meravigliosa What It Is.
> Everybody’s looking for
> Somebody’s arms to fall into
_Ognuno sta aspettando di cadere tra le braccia di qualcuno_ , in pratica. Che è anche un modo molto romantico di dirlo.
Ben prima di lui, lo dicevano in modo artisticamente brutale gli Eurythmics, licenziando – negli anni Ottanta – una delle strofe più limpide, disilluse, lancinanti e tragicamente reali di tutta la storia della canzone
> Some of them want to use you
> Some of them want to get used by you
> Some of them want to abuse you
> Some of them want to be abused
La voce di una Annie Lennox indubbiamente perentoria si eleva sul (magnifico, essenziale) tappeto elettronico della canzone per confessare _ho viaggiato dappertutto e la gente è ovunque uguale, alcuni vogliono usarti, altri essere usati da te, alcuni vogliono abusare di te, altri desiderano essere oggetti di abuso_.
Ha ragione? E’ davvero tutto così, a parte i bei discorsi che facciamo quando siamo rilassati e a nostro agio? Quando dimoriamo nell’illusione di essere in controllo di noi stessi, delle nostre pulsioni, delle nostre paure di essere abbandonati, dei nostri tremendi terrori di essere soli, di non avere in mano niente?
E’ tutta una gara ad usare o essere usati, abusare o essere abusati? C’è questo, in fondo a tanti discorsi colorati e sapienti che ci facciamo, spesso usandoli appena come schermo?
Questa cosa del possesso mi coinvolge, mi interpella. Questa continua lotta per _lasciare andare_ , per _non aggrapparmi_ , non mi dà tregua, mi sfianca. Proprio su questo la fatica è tanta, il divario tra come si è veramente e come si vorrebbe essere (l’immagine che vorrei dare di me stesso), talvolta è oceanico. Tutto è tranquillo fino a che non si guarda lì, a quello struggimento fortissimo a possedere o essere posseduti (si può dire come gli Eurythmics, senza troppo sbagliare, _abusare_ o _venire abusati_).
Mi ci sta facendo riflettere un passaggio di Luigi Giussani, che trovo particolarmente onesto sul tema, ovvero senza edulcorazioni inutili e fuorvianti. Il passaggio è contenuto nel libro Breve catechesi sul matrimonio di Antonio Maria Sicari 1
> … senti, l’origine di tutto dov’è? E’ nel nostro desiderio di possedere ed essere posseduti.
E mi sembra perfetta la convergenza con gli Eurythmics. _Perfetta_. La loro canzone potrebbe riassumersi davvero in queste due righe (tra l’altro il libro è del 1990 e Sweet Dreams del 1983, si può perfino ipotizzare che Giussani l’abbia sentita). Però poi continua, con un affondo interessante ed impegnativo, continua dove Annie Lennox si era fermata, dove non osava entrare. Continua con una _proposta di lavoro_ , dopo la constatazione (più o meno scorata) dei fatti. Continua citando un nome proprio, davanti a cui i pareri – come sempre è accaduto – si dividono.
> Ma per chi ama Cristo questo desiderio è segno del rapporto con Lui, sostanzialmente già realizzato e pure sempre da costruire, da esperimentare. Qualunque cosa accada, qualunque deviazione subisca il nostro desiderio di possedere e di essere posseduti, bisogna attaccarsi alla natura originale di questo desiderio.
Qui non si può scappare, mi dico, adducendo magari il fatto di _non credere_. Ché la provocazione, al fondo, rimane. C’è qualcosa di _più sacro_ rispetto al desiderio di possedere e di essere posseduti? C’è un _amore più grande_ nell’universo (oltre e dentro tutti gli universi) che mi aiuti a bilanciare il senso di perdita che mi assale, quando il bruciante desiderio di possedere ed essere posseduto viene frustrato dalle circostanze?
A volte la sera esco fuori, a guardare le stelle. Qui in Abruzzo, quando il cielo è terso, si vedono benissimo. Loro sono bellissime e lontane, si possono ammirare ma non si possono toccare. Tantomeno, possedere. Ogni volta che le guardo, mi sembra di apprendere qualcosa, di mettere qualcosa da parte. Qualcosa che non si può declinare in parole, ma che mi si riversa dentro e mi calma, mi conforta, addolcisce quel senso di mancanza che conosco fin troppo bene. Qual è dunque la _natura originale_ di questo mio desiderio?
Ancora, la cara Etty conferma nella necessità di lavorare, di lavorare pazientemente per trovare la strada. Usando prudenza, nel frattempo.
> Devi solo cercare di trovare un punto nel tuo profondo dove sei sempre uguale e sul quale puoi contare senza distinzioni di sorta. E finché non arrivi là, devi essere prudente con i tuoi sentimenti, in modo da non arrecare un danno eccessivo a chi ti sta attorno con atti impetuosi, che più tardi risulterebbero assolutamente infondati.
Succede alle volte, che il cuore si allarghi tanto che non nutre più che un quieto desiderio di lasciare entrare il cosmo in sé, e basta. Di _cedere_ , di sciogliersi in questa immensità, in questo abbraccio stellare. Dove non conta più possedere o essere posseduti. Conta, per la veirtà, ma scivola in secondo piano, rispetto alla Meraviglia.
Magari dura un istante, un microsecondo. Non ti esonera dalla lotta, non ti butta fuori dalla fatica, dalla frustrazione. Ma accade. E da questo, mi dico, si può comunque ripartire.
* * *
1. Trovo la citazione nel libretto “Abbiamo conosciuto l’amore” (Fraternità di Comunione e Liberazione, 2025)↩
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